Fotografare è assaporare intensamente la vita, ogni centesimo di secondo
(Marc Riboud)
La fotografia è un’arte che mi ha sempre affascinato ma che ho sempre guardato da lontano. Trovo sia incredibile come, molto spesso, una bella fotografia riesca a farti vedere un soggetto da un punto di vista nuovo.
È un modo differente di guardare il mondo e di farlo vedere agli altri.
Non ho mai seguito un corso, anche se mi sarebbe sempre piaciuto, fondamentalmente perché prendere impegni di lunga durata, che implichino uscite all’aperto, mi spaventa un po’. Ho sempre paura che la malattia arrivi e mi tolga la possibilità di completare un percorso. Lo so, è una cosa sciocca. Privarsi di quello che potrebbe essere un piacere o una nuova scoperta, per la paura che possa accadere qualcosa (in questo caso, una crisi) è un vero peccato. Ma ho imparato che devo vivere cercando di essere più serena possibile, evitare di aggiungere stress a quelli che già dobbiamo affrontare quotidianamente, perciò osservo la fotografia e cerco di assorbire qualunque insegnamento le persone accanto a me riescano a darmi. Chissà che un domani non impari a buttarmi un po’ di più in quell’ignoto che mi spaventa tanto.

Io e mia nonna
E poi fotografia è magica perché grazie ad essa si possono rivivere momenti passati. Quante volte ci ritroviamo a sorridere davanti ad una foto di parecchi anni fa, grazie alla quale ci è tornato in mente un particolare di una giornata che avevamo dimenticato? O quante volte rivediamo il volto di una persona cara che purtroppo non c’è più? La fotografia ci regala sempre un’emozione. Che la si ricerchi o meno.
E proprio per questo è una forma di comunicazione davvero potente.
Quando mi è stato suggerito di affrontare il tema “fotografia” nella rubrica, la mia mente ha subito pensato a Giampiero Caminiti, punto fondamentale dell’AMMI e della nostra redazione.
Ho quindi deciso di farci quattro chiacchiere, perché chi meglio di lui ci può parlare di fotografia?!
M:“La fotografia ha sempre fatto parte della tua vita?”
G:In qualche modo si. Ho la fortuna di essere vissuto nell’era della fotografia analogica, con l’uso della pellicola. Usavo la macchina fotografica dei miei genitori durante le gite scolastiche, e ogni volta che portavo il rullino a sviluppare era un’emozione. Ricordo ancora che al laboratorio, per ogni sviluppo, regalavano un nuovo rullino, così lo caricavo nuovamente in macchina e non vedevo l’ora di scattare ancora. Con l’avvento del digitale ho avuto il mio apice perché, avendo una formazione da elettronico e informatico, non ho avuto grosse difficoltà a seguire il passaggio. Così la fotografia è diventata studio e continua ricerca, dallo scatto alla post-produzione.
M:“Quando la malattia è comparsa nella tua vita hai avuto paura che potesse essere un impedimento nei confronti della fotografia?”
G:Ho iniziato con la fotografia quasi per gioco. Nell’inverno del 2007 frequentavo delle iniziative culturali presso un’accademia di belle arti. Ebbi l’occasione di seguire un corso di fotografia perché volevo approfondire le mie conoscenze e imparare la tecnica e il linguaggio fotografico. Mi si aprì un mondo e quello che prima era iniziato per gioco, divenne a poco a poco una passione. Rimasi in accademia a supporto dei corsi come assistente alla post produzione digitale. La mia formazione mi tornò molto utile.
La comparsa della malattia credo possa essere collocata in un periodo di profondo cambiamento, soprattutto in termini di lavoro. Mi occupavo di assistenza informatica, e da 10 anni prevalentemente per RFI. Per scelte loro aziendali, i rapporti lavorativi si conclusero e, tutto a un tratto, mi sono ritrovato senza terreno sotto i piedi. Quindi è stato quasi fisiologico aggrapparmi alla fotografia. Dire che è stata la mia salvezza forse può sembrare esagerato, ma avendo sempre fatto un lavoro dettato dalla passione, ho solo spostato l’attenzione verso un’altra, trasformandola, a poco a poco, in una professione.
M:“Trovi beneficio da essa? Penso ad esempio che possa in un certo senso distrarre la mente da eventuali disagi che la malattia può provocare.”
G:Altroché. La fotografia è un processo che, come diceva il grande Henri Cartier-Bresson, mette sulla stessa linea mente, occhi e cuore. Quando sto con gli occhi sul mirino entro in un mondo dove la malattia non esiste, o meglio, decido di tenerla fuori da quella linea, concentrandomi su un paesaggio, su un ritratto, sui colori, sulle ombre e sulle luci. Forse posso anche affermare che i disagi della malattia mi inducono a dovermi concentrare maggiormente, innalzando ai massimi livelli la sensibilità verso il mondo che mi circonda e, allora, ruoto con lei alla ricerca di dettagli da rendere storia.
M:“Cosa consiglieresti a chi è incuriosito dalla fotografia e vuole avvicinarsi ad essa?”
G:La fotografia è un’Arte. Avvicinatevi solo se avete davvero la passione e non per la moda del momento. Oggi giorno sembra tutto facile. Le fotocamere sono sempre più evolute, gli smartphone son diventati sempre più smart e meno phone. Molti pensano che basti avere uno strumento performante per fare una bella fotografia. Ma se non si impara la grammatica, mancherà la cosa più importante, lo stile e un proprio linguaggio. Quindi seguite anche solo un corso base di fotografia per capire se è la strada che volete o meno intraprendere, anche solo per passione.
M:“Ci consiglieresti qualche fotografo da poter scoprire/ammirare?”
G:L’origine della parola “fotografia”, in greco, phôs significava luce, e graphè scrivere, disegnare. Un fotografo è, alla lettera, qualcuno che disegna con la luce, un uomo che descrive e ridisegna il mondo con luci e ombre. Non posso, dunque, che consigliarvi la scoperta di Sebastião Salgado, un fotografo brasiliano il cui coraggio lo ha portato, in un momento della sua vita, a una svolta. Abbandonò il suo lavoro di economista per dedicarsi esclusivamente alla fotografia. Prevalentemente nel campo del fotogiornalismo, ha avuto l’opportunità di viaggiare e conoscere il mondo. Il suo stile è inconfondibile: con l’essenzialità del Bianco/Nero, la progettualità di ogni lavoro, ha sempre trattato temi scottanti, come i diritti dei lavoratori, la povertà e gli effetti distruttivi dell’economia di mercato nei Paesi in via di sviluppo. Ma la cosa che mi affascina più di lui è la sua versatilità, quel coraggio che lo spinse nel cambiamento iniziale, lo fece evolvere anche come fotografo, lo portò a cambiare ancora visione di sé stesso, passando da fotografo/testimone della condizione umana a fotografo paesaggista, omaggiando il pianeta con un progetto legato all’ambiente, ripercorrendo le orme di Darwin e scoprendo che quasi la metà del pianeta è come nel giorno della genesi.
Particolare curioso è che conobbi questo fotografo grazie al suggerimento di una persona affetta da Menière. Non fa fotografia, ma evidentemente la sensibilità è stata a livelli tali da rimanerne profondamente colpita. Se volete conoscerlo anche voi vi do lo stesso consiglio che diede a me, la visione del film/documentario “Il Sale della Terra”, prodotto con maestria da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado.
Mimi
Ciao , molto interessante questo articolo anche a me piace la fotografia ed ho fatto dei corsi ultimamente
Non sono brava, ma ho voluto migliorarmi per fare i reportage dei miei viaggi…
Grazie al corso di fotografia mi sono molto avvicinata alle mostre fotografiche , e ora guardo le foto con un occhio diverso, e questo mi piace molto.
Adoro Salgado e ho visto sia il film che tutte le mostre che sono uscite a Milano , lo consiglio
Grazie Giampiero per tutte le belle foto che ci fai , si vede che sei molto molto bravo
Grazie Elena delle tue parole. Hai fatto bene a seguire un corso di fotografia, perchè adesso sai cosa si prova a essere padrone della luce e, attraverso essa, veicolare un messaggio, che sia un sorriso, un abbraccio, o quello che più desideri ;-)